9.6.06

Uma entrevista com Lucio Colletti


Transcrevo aqui a entrevista do filósofo Lucio Colletti a Antonio Gnoli, do jornal italiano La Repubblica (edição de 24/fevereiro/01), a propósito do lançamento de meu livro Perché il marxismo ha fallito. Lucio Colletti e la storia di una grande illusione (Mondadori, 2001). O texto está disponível no site de filosofia SWIF (link ao lado).

Suona il telefono, è la voce di Lucio Colletti dall'altra parte.

Inconfondibile come l'assolo perentorio di una tromba rauca e contratta in una notte di fumo e di jazz. "Hai ricevuto il misfatto?". "Sì, ho ricevuto". Il misfatto è il libro che mi è appena arrivato. Odora, come si diceva una volta, di fresco: 350 pagine sul Perché il marxismo ha fallito, questo è il titolo. Sottotitolo: "Lucio Colletti e la storia di una grande illusione" (Mondadori, lire 38.000). L'autore è un tal Orlando Tambosi, un nome che per sonorità evoca i personaggi dei campi di calcio descritti con impareggiabile maestria da Osvaldo Soriano. Tambosi è un professore brasiliano, a suo tempo folgorato dalle vicende del marxismo italiano e in particolare da uno dei suoi protagonisti, dei suoi attori (uso l'espressione volutamente), che ha calcato la scena italiana, sferzando parecchi luoghi comuni e guadagnandosi un indiscusso rilievo internazionale.

Destino che è stato per lo più negato agli altri artefici. Ma non a lui né ai suoi libri che hanno circolato in Europa e perfino negli Stati Uniti. Naturalmente ne è consapevole. E su questo gioca, come quelle vecchie glorie del calcio cui - fra un palleggio e l'altro - il tempo non ha tolto l'ironia e il gusto di prendersi talvolta in giro. Al telefono Colletti è, come dire?, non affabile, ma intimo. Ti parla come se non avesse pensieri da nascondere, ti dice tutto quello che gli passa per la testa con la stessa naturalezza con cui, immagino, si faccia la barba la mattina davanti allo specchio.

E' un uomo, si direbbe, sprovvisto di inconscio. E' un po' che non ci sentiamo. Nei mesi passati ha subito un piccolo intervento chirurgico, è intervenuto varie volte sui giornali per la sua attività di parlamentare di Forza Italia, ha avuto la disavventura di tingersi involontariamente i capelli di biondo e da ultimo, molto più recente, la sgradevole vicenda di vedersi rifiutata la prefazione al nuovo libro di Berlusconi che lui definisce "berlusconiana", ma non scritta in ginocchio.

"Sai, dice, i monumenti si fanno ai morti e poi non mi riesce, non è nel mio spirito produrmi in elegie, in soffietti". Osservo sommessamente che in fondo è proprio questo il problema della sua vita - gli orientali parlerebbero di karma: mai darla vinta all'avversario (e neppure all'amico), mai sottomettersi al più forte anche se quello può estrometterti dal gioco. Ecco: Colletti è fatto così, se lo bastoni sulla testa lui prova a picchiare più forte. E allora quella prefazione, che non voleva essere l'elogio di Kim il Sung, è finita come una lenzuolata su Il Foglio di Ferrara.

Provvidenziale? Chissà. Gli chiedo delle prossime elezioni: "Che fai, ti candidi o no?". Pausa: "No, guarda veramente non lo so. Anzi l'unica cosa certa è che io in questo momento sto fermo, non mi agito". Incalzo: ma se lasci il Parlamento che farai? "Mi compro un volpino e vado ai giardinetti", dice provocatorio. La provocazione è innata in Colletti: è un balsamo che lo rigenera, non risparmia niente e nessuno, oserei aggiungere nemmeno se stesso.

Volete una prova di quello che sto affermando? Basta guardare alla sua vita, e se proprio non vi è possibile direttamente, fatelo attraverso il libro di Tambosi: sufficientemente onesto, pedissequo, prevedibile. Ma con una qualità indiscussa: narra di un personaggio che ha fatto di tutto per mascherare la sua disperazione teorica, con quella specie di doppio salto mortale, avvitato a destra, che dalle aule dell'università lo ha proiettato in quelle del Parlamento. Giusto o sbagliato che sia è lì, tra quei grigi scranni che si è consumata la piccola tragedia di un uomo che per una certa fase della vita fu abituato a pensare in grande. Mi riferisco a quei quindici anni che lo videro protagonista indiscusso.

Una lunga stagione - cominciata nella metà degli anni Sessanta - durante la quale egli è passato dall'elogio della democrazia diretta (fatto dalle colonne della rivista La sinistra, da lui fondata e diretta), alle acute analisi sul primo libro del Capitale, alla constatazione tutt'altro che peregrina e in qualche modo convergente con le tesi di Bobbio, che è inesistente una dottrina marxista dello Stato, per la semplice ragione che da Marx a Lenin alle ultime loro propaggini vigeva l'idea che lo Stato andasse estinto.

Non si capirebbe molto delle critiche di Colletti al marxismo, che culmineranno come è noto nelle celebre e definitiva Intervista politico-filosofica del 1974, se non si tenesse a mente il suo percorso lungo il quale privilegia la linea epistemologica che attraverso Aristotele e Kant approderà a Popper, anche se liberato dalle "anarchie metodologiche" di certi suoi allievi. Si tratta di una linea interpretativa adottata contro l'altra che, partendo da Platone, passa per Hegel e approda alla Scuola di Francoforte. Naturalmente stiamo semplificando: ma è, grosso modo, grazie a questo sfondo che Colletti fa i conti con Marx, con i suoi due volti di scienziato e profeta: epigono di Hegel da un lato, erede dell'economia classica dall'altro.

Poche persone in ambito teorico hanno come lui guardato con sospetto all'idea che la realtà fosse un processo soggettivo e che vero è solo ciò che è interiore. E, d'altro canto, non è inutile ribadire qui il ruolo che agli occhi di Colletti ha rivestito la realtà come fenomeno esterno abbordabile attraverso gli strumenti che l'intelletto finito mette a disposizione. L'impressione, insomma, è di trovarci di fronte al viaggio periglioso di uno studioso che da giovane assistente di Ugo Spirito, passando per Galvano Della Volpe, approdò in quella terra desolata che è l'epistemologia contemporanea, con la quale, ormai cinquantenne, costeggiò i grandi temi della scienza. Rottura o continuità rispetto al passato? Ecco un interrogativo che va sfumato. Colletti è stato, almeno sul piano della teoria, un uomo insolitamente coerente. È difficile non vedere - dentro le svolte e le autocritiche - una rotta decisa, un cammino sicuro. D'altro canto egli è sempre stato l'uomo dell'insoddisfazione permanente. Militava nel Partito comunista ma standoci con l'insofferenza dell'intellettuale che non ha rinunciato al giudizio autonomo. All'Università trovava insopportabili gli studenti e noiosi i professori. Al Parlamento non so. Ma anche lì - come nelle fila di Forza Italia - immagino che il nostro si sentirà annoiato, deluso, forse incompreso. Un male oscuro, un'inquietudine radicale, nonostante tutto, mina le fondamenta dell'ex professore di Teoretica. Di che si tratta? Colletti è l'uomo meno reticente che io conosca. Niente in lui è misterioso, oracolare, allusivo. Si direbbe che l'aristotelico principio di non contraddizione qui svolga alla perfezione il suo compito.

Eppure se gli chiedi: "Ma scusa, chi te l'ha fatto fare di finire proprio lì", lui diventa vago, invoca plautinamente la pensione, i conti da pagare, le mogli da assistere, i figli da mantenere. Esce fuori, per intenderci, il lato di Colletti che riguarda il suo rapporto aspro greve e basso con il reale: più Rabelais che Kant; più Belli che Popper. E allora si capisce anche la lunga prefazione (mancata) ai discorsi di Silvio Berlusconi che Il Foglio ha pubblicato. Un intervento tutt'altro che sdraiato. Più che il ritratto di un leader è il racconto di un percorso di guerra fra le due Repubbliche.

Certo, a voler essere cavillosi, spulciando nella quindicina di cartelle, balza agli occhi che Berlusconi è citato una trentina di volte; che viene definito tenace, un leader "che ha bruciato i tempi del suo apprendistato, trasformandosi da grande imprenditore in politico esperto", e che, almeno in un'occasione ha dimostrato "uno scatto della sua fantasia, ai limiti del colpo di genio". Ma a parte certe piccole debolezze oratorie, il tono elegiaco resta molto al di sotto dell'entusiasmo con cui di solito l'entourage di Forza Italia dipinge il suo timoniere. Che sia questo alla base del rifiuto? Se c'è una dote che Colletti non ha mai nascosto è quella di non fare un dramma delle vicissitudini della vita. Come un darwinista del XX secolo ha sempre pensato che la realtà impone selezioni durissime. E che se la stessa specie umana è a rischio, figuriamoci il singolo. Ma da dove nasce quel forte disincanto che sembra avvolgerlo?

Dovete immaginare un uomo che per quarant'anni non ha fatto altro che lavorare su un crinale teorico con determinazione, tenacia, acutezza. E che a un certo punto, pur nella vastità e nella durezza delle analisi, come nel realismo di alcuni protagonisti, egli scorga le fatali contraddizioni che un disegno culturale di tale portata nascondeva. Come un personaggio di Stevenson quell'uomo non ha fatto altro che affondare insieme a quel progetto. Immune alle mode culturali degli anni Ottanta e Novanta - cui ha guardato con sarcastico disprezzo - Colletti ha finito con il chiudersi in una paradossale situazione. Da un lato, come dire?, l'empirista, l'eretico, ha continuato a guardare ai fatti del mondo con lo sguardo dell'uomo moderno che rivela con amarezza l'angoscia che si prova davanti all'insignificanza dell'esistenza umana. Dall'altro, il fescennino, la maschera provocatoria, salace e un po' scurrile, che non arretra davanti al fango della storia, anche più recente. Da un lato Monod e Weber, dall'altro Petrolini e Claudio Villa, reucci di canzoni e di teatro. Non so se esista in giro un personaggio che si possa accostare a Lucio Colletti, ma forse uno c'è stato: Federico Zeri. Credo che pur nella distanza abissale che li separa, quella certa verve corporale della quale entrambi si compiacevano nasconda un dramma simile: la conoscenza non è un balsamo, non consola, porta con sé qualcosa di terribile, una tabe che rende l'uomo nudo e indifeso. E allora tanto vale scherzare, raccontare barzellette, o magari iscriversi a un partito che in un'altra stagione della vita non ci saremmo mai sognati di scegliere.

Ma il tempo passa. Il pensiero se vuole può quasi sempre trovarsi in regola con il passato. Ma il bello è che mai è in perfetto orario con l'avvenire. Quali sorprese ci potrà ancora riservare Colletti?

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